Saba Anglana
La signora Meraviglia
SELLERIO, 2024
Romanzo
Ho scoperto il romanzo di Saba Anglana nell’autunno 2024, quando La signora Meraviglia era candidato al Festival du Premier Roman di Chambéry. Facevo parte della giuria dei lettori per Lectures Plurielles, insieme all’Associazione Lucciola Vagabonda di Lione. In seguito, il romanzo è stato presentato al Premio Strega e ho deciso di scriverne. La signora Meraviglia è una saga familiare ma è soprattutto una storia di sradicamento e ricerca di identità, che collega l’Italia all’Etiopia e alla Somalia.
Si tratta di un romanzo memoir, con una struttura caleidoscopica. La narrazione si apre con la fuga disperata di una ragazza etiope, poco più che bambina, sugli assolati altopiani africani: una corsa che lascia il lettore senza fiato. Un uomo ascaro somalo la insegue, tra gli arbusti di caffè. La ragazzina, di nome Abebech, viene da lui raggiunta, condotta in Somalia, resa madre e quindi abbandonata. Seguendo il bisogno – e in ascolto dei presagi di un indovino – Abebech attraversa un territorio che brucia di dolore e sabbia bollente, fino a Mogadiscio. È il 1938: l’Africa Orientale italiana luccica di stemmi imperiali. Qui Abebech lavora duramente, incontra un uomo etiope e l’amore che nasce tra i due le assicura una certa stabilità familiare, accompagnata dalla nascita di altri otto figli. Tuttavia, i traumi profondi accumulati e la diaspora della sua famiglia, portano Abebech a scivolare poco a poco in un turbamento che la inghiotte, sottraendole la parola e insieme il senso della vita. Soltanto una guaritrice può tentare di placare il Mukabi, lo spirito disturbante dell’Africa Orientale, che si manifesta come un dolore antico e stratificato, legato ai vissuti personali (violenza, esilio, perdita), ma anche a una memoria collettiva non riconosciuta: quella del colonialismo, dell’esodo, dell’identità negata. La guaritrice ha un nome, Wezero Dinkinesh, che tornerà molti anni dopo nell’intreccio: letteralmente, signora Meraviglia.
La scrittura di Saba Anglana, per tutta la narrazione che riguarda l’Africa, è impregnata di un grande lirismo, è intensa e suggestiva. Si percepiscono le distese semidesertiche, l’altitudine, il profumo del caffè fatto con i grani crudi, mescolato a quello dell’incenso.
A un certo punto della narrazione, uno spostamento tematico e temporale fa slittare la storia nel presente, in Italia. Qui, una ragazza di nome Saba – nipote di Abebech – aiuta una zia somala a muoversi nei labirinti della burocrazia per ottenere la cittadinanza italiana. Siamo nel 2015 e il governo di quegli anni ha imposto nuove norme sui permessi di soggiorno, anche – paradossalmente – per gli stranieri che risiedono da molti anni sul territorio nazionale, insieme alle loro famiglie. Ed è così che, nel racimolare la documentazione necessaria, Saba ripercorre la storia faticosa dei propri familiari e dell’epoca coloniale, quando la prima figlia della coppia etiope, la bellissima Nina, sposa Carlo, un ricco italiano con affari in Somalia. Di fronte al crescente clima di tensione nei confronti della presenza italiana, mentre la Somalia si avvia verso l’indipendenza, Carlo decide di trasferirsi con la moglie in Italia, dove nasce Saba. Anche se la contemporaneità costituisce il primo piano narrativo, il passato coloniale continua a vibrare sotto la pelle dei personaggi. Sia a Ostia, dove risiede la protagonista narrante con la madre Nina e la zia Dighei, sia in Veneto, dove abitano altri zii. Nel presente, il romanzo offre uno sguardo che sottolinea le intenzioni restrittive delle classi dirigenti italiane nei confronti dell’immigrazione. Anche la confusione che sovrasta impiegati statali e avvocati contribuisce a ostacolare il processo di naturalizzazione. Infine, la distruzione dell’archivio nazionale somalo di Mogadiscio impedisce di chiarire l’intricata situazione della famiglia. Una famiglia di origine etiope, cresciuta in Somalia e trasferitasi in Europa. Che identità hanno i suoi discendenti?
La scrittura che descrive l’Italia contemporanea è tagliente e sarcastica. È una scrittura politica, eppure intima e fluida, capace di inoltrarsi con misura nella tematica del trauma. Legato a un disorientamento identitario e al razzismo subito, sia in Somalia – in quanto etiopi – sia in Italia – in quanto africani, il romanzo testimonia del fatto che non esiste un approdo sicuro. Neppure a Roma, che è soltanto un altro lugo in cui ovunque e in ogni istante – a scuola, al lavoro, per strada, in metropolitana o sul treno – gli sguardi degli altri ti ricordano la tua alterità: la tua pelle ha una tonalità diversa dalla loro, la tua pronuncia della lingua italiana ti tradisce. A conferma del fatto che neppure l’Italia si rivela un rifugio sicuro per la famiglia di Saba, il Mukabi — spirito inquieto, o disagio psichico — li accompagna. Si tratta di un malessere ereditato, invisibile, come un segno indelebile della ferita originaria, che si insinua nelle vite dei discendenti di Abebech sotto forma di rabbia, di estraneità. Il romanzo si conclude con un viaggio ad Addis Abeba, per ottenere un ultimo documento utile per la cittadinanza della zia. Nel momento in cui scende dall’aereo, Saba afferma: “E io adesso sbarco sulla luna, aliena a me stessa”. Eppure, questo viaggio offre alla protagonista la rivelazione: il Mukabi non si sconfigge, si accoglie. Solo attraverso il riconoscimento del trauma si può sopravvivere a ciò che fa male: “La bestia non muore,” conclude Saba, “ci devo convivere.”
E la Signora Meraviglia del titolo? Non a caso, l’appellativo dato da Saba – e dalle zie – al documento che sancisce la cittadinanza italiana e la vecchia guaritrice somala Wizero Winkinesh hanno lo stesso nome, simbolico, astratto e ironico: Signora Meraviglia.
Esperienza di lettura: il trauma
La descrizione della Mogadiscio di un tempo, nei ricordi dei personaggi, è struggente: città assolata e perduta, evocata attraverso i luoghi e le persone legate alla vita di Abebech. Con i suoi monumenti, le strade, le spiagge e il mare, la città vive nella memoria affettiva e soppianta l’immagine della Mogadiscio odierna, lacerata dalla guerra e dal terrore. Il duplice sradicamento, dagli altipiani dell’Etiopia prima, e dalla capitale somala, in seguito, genera una frattura identitaria irrisolvibile.
In questa esperienza di lettura, l’identità spezzata si accompagna a un profondo senso di estraneità e alienazione nella società di accoglienza, dove i personaggi si sentono invisibili o non riconosciuti. È anche una frattura tra generazioni, che i figli – nati o cresciuti in Europa – tentano di ricomporre, cercando risposte in una storia familiare lontana, complessa e frammentata. La perdita delle radici familiari, culturali e linguistiche si conferma, a tutti gli effetti, un trauma persistente che riaffiora nella vita dei diversi personaggi, in epoche differenti, trasformandosi ogni volta in un dolore profondo e silenzioso. Un dolore che può esprimersi attraverso depressione, disagio, nostalgia o attraverso un’incessante ricerca di senso.