Colm Tóibín
Brooklyn
EINAUDI, 2019
Romanzo
Impossibile ricordare chi devo ringraziare per la segnalazione di questo titolo, del 2009. Ho letto (e amato!) Brooklyn quest’anno, in lingua originale, ma il romanzo è edito in italiano da Einaudi (2019), nella traduzione di Vincenzo Vega.
Si parte da Enniscorthy, Irlanda, anni 1950. La protagonista di questa storia è una giovane donna, Eilis Lacey, che si affaccia al mondo del lavoro. Come molte ragazze della sua età, non riesce a trovare un impiego stabile nella cittadina dove è cresciuta. Eilis viene così incoraggiata dalla famiglia ad accettare un impiego come commessa in America, a Brooklyn, che le viene offerto grazie all’intermediazione di un sacerdote, tale Padre Flood. A questo punto, nel romanzo, si affaccia la tematica dell’espatrio. Nonostante le modalità con cui questo avviene, ovvero con scarsa cognizione da parte della giovane donna dell’esperienza a cui sta andando incontro, il sacerdote si porta garante di Eilis e si fa carico di trovarle, oltre al lavoro, anche una sistemazione a Brooklyn. Per non deludere le aspettative della madre e della sorella Rose, Eilis parte controvoglia e affronta da sola un lungo – traumatico – viaggio in transatlantico, da Birmingham a New York.
Agli occhi di un lettore che, per qualche ragione, ha affrontato una o più partenze verso un luogo sconosciuto, la traversata di Eilis genera una grande empatia verso questo personaggio. Non tanto per la capacità di comprendere il sentimento di tristezza, correlato all’abbandono della propria famiglia o dei luoghi noti, quanto per la chiara sensazione che nel momento in cui Eilis si confronta con il viaggio, con la solitudine e con l’impresa di trovare un nuovo modo di porre se stessa di fronte al mondo, questa giovane donna cessa di essere tutto ciò che era prima.
Inizialmente sopraffatta dalla nostalgia di casa, Eilis scopre le strade, i luoghi e le abitudini dei quartieri di New York, dove sono riunite le varie comunità di emigranti. Lontano dallo sguardo di chi la conosce da sempre, Eilis sperimenta se stessa e assapora una sensazione di maggiore libertà. Il sentimento di libertà di questa donna non è dato soltanto dall’ebrezza di gestire se stessa, quanto dalla possibilità di assecondare la propria voce interiore, di cogliere le opportunità che risuonano con i propri desideri o talenti. Una lettrice expat, come me, è incline nel condividere con questo personaggio la meravigliosa consapevolezza che ogni traguardo è frutto del proprio impegno. Grazie alla sua determinazione, Eilis riesce a intraprendere un percorso di studi in contabilità, a maturare un ruolo nella società che l’ha accolta, così come nella pensione dove vive con altre giovani lavoratrici irlandesi; Eilis riesce insomma a stabilire delle nuove relazioni affettive.
La distanza dalla propria famiglia e dal proprio ambiente comporta alcune riflessioni anche sulle conseguenze dell’espatrio, a lungo termine. Eilis si interroga ad esempio su quanto è possibile dire, scrivere, o comunicare con chi è rimasto nel luogo d’origine. Nel caso di Eilis Lacey, le lettere che invia alla madre, ai fratelli o alla sorella non dicono tutto, né a proposito delle difficoltà dell’adattamento, né a proposito dello stile di vita newyorkese. Si concentrano sulla routine del lavoro, sull’organizzazione tra coinquiline per lavare i panni, sulla moda (addosso alle altre), sull’arredamento del salotto della landlady. Insomma, sulla superficie. Nell’atteggiamento degli expat si ritrova talvolta questa tendenza all’appiattimento dei contenuti: per non preoccupare, o per timore che chi è rimasto nel contesto di partenza non possa capire i problemi della nuova vita all’estero. Oppure per non finire col vantarsi, col magnificare la propria esperienza di espatrio, i propri successi. Forse semplicemente per non scioccare chi è rimasto fermo alla base.
In questa ricerca di equilibrio, Eilis evolve e si trasforma; insieme a Brooklyn, che accoglie sempre nuovi immigrati (irlandesi, polacchi, italiani, ebrei, e «perfino gente di colore»), mentre chi ha fatto fortuna lascia il quartiere per trasferirsi a Long Island. Tóibín ci offre uno spaccato sulla crescita dei department store negli anni Cinquanta, che ricorda in qualche maniera le dinamiche già descritte da Émile Zola, in Au Bonheur des Dames (Il paradiso delle signore), sulla nascita dei grandi magazzini a Parigi, alla fine del XIX secolo.
Il romanzo ha due punti di svolta significativi: quando Eilis inizia a frequentare un fidanzato di origini italiane, che rappresenterà un nuovo ancoraggio nella sua esperienza di espatrio, e quando un improvviso dramma familiare la costringerà a ripercorrere l’Atlantico per rientrare in Irlanda dalla madre. Una volta tornata in patria, le fattezze di Brooklyn e dei suoi abitanti assumeranno la qualità irreale dei sogni. Nonostante si tratti di un rientro temporaneo, Eilis vive la propria permanenza a Enniscorthy senza capire a quale mondo lei appartenga, lacerata tra il conforto di ritrovare un universo familiare e predefinito e la necessità di governare il timone della propria vita, tenendo fede ai propri impegni a Brooklyn. Come sempre nell’esperienza di espatrio, spesso si preferirebbe non dover scegliere, non doversi allontanare, non dover tradire.
Tóibín consegna al lettore una scrittura raffinata e sensibile, dipingendo con delicatezza il complesso intreccio di identità culturali che animavano Brooklyn e Coney Island nel secolo scorso. Al tempo stesso, esplora con profondità il tema dell’identità individuale di una donna espatriata, mettendo in luce il peso della rottura con la propria comunità e il senso di colpa che talvolta ne deriva.
Esperienza di lettura: la lacerazione
L’esperienza di lettura di questo romanzo porta con sé una grande sensazione di separazione e lontananza. Brooklyn non è soltanto il luogo dell’inesperienza nei confronti della vita all’estero o della nostalgia. È il resoconto dello strappo irrimediabile che si crea a seguito di una partenza, più o meno definitiva. Come in ogni esperienza di espatrio c’è un prima e un dopo.
La narrazione di Tóibín tocca numerosi tasti sensibili. E quanto più ci mostra le opportunità offerte dall’integrazione in una nuova realtà sociale, tanto più tratteggia la lacerazione di chi fa i conti ogni giorno con il proprio conflitto di appartenenza.
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